Ricordo il trauma che subii quando mi recai negli Stati Uniti per la prima volta, quarant’anni fa. Compresi che in quel Paese, allora molto più lontano di oggi, ordinare un panino rappresentava un passaggio chiave, quasi un rito di iniziazione per gli stranieri.
La prima volta che andai alla cafeteria (praticamente la mensa dell’università) chiesi semplicemente un panino al formaggio, “a sandwich with cheese, please”. Cos’altro avrei dovuto chiedere? Invece, la grossa cameriera nera con accento baltimorese-afroamericano iniziò un interrogatorio che ricordo come il più difficile degli esami che abbia sostenuto e certamente quello a cui ero meno preparato.
Cominciò con il chiedermi: “Kind-a-cheese?” cioè che tipo di formaggio? Le feci ripetere la domanda tre volte anche se aveva cominciato a sbuffare ancor prima che aprissi bocca esibendo un atteggiamento seccato e disattento. Quando finalmente capii che potevo scegliere il formaggio, le chiesi: “Excuse me, what kind of cheese do you have?” (che tipo di formaggio avete). Al che mi elencò in rapida successione almeno sette-otto tipi di formaggio di cui non compresi il nome. Non osando chiedere spiegazioni tirai a indovinare e dissi: “The second, please”. “Ye mean blue chee’?”
Per fortuna capii che quello era un tipo di formaggio e non un commento sul tempo o chissà cosa. Risposi sollevato con un semplice: “Yes, thanks”. La fila intanto dietro di me si allungava, ma io credevo che l’esame fosse stato ormai superato, il panino conquistato e io liberato dall’imbarazzo.
Invece seguì immediatamente un’altra domanda inaspettata espressa con tono ancora più irritato: “Kind-a-breeeed?” lo strascinamento delle vocali e l’accentuazione della pronuncia afroamericana baltimorese erano la misura del fastidio che sembrava le dessi. Ancora dovette ripetere due o tre volte prima che capissi che mi chiedeva quale tipo di pane. A questo punto, con la migliore intenzione di non creare problemi, commisi l’errore più grave e le dissi: “Any kind, it doesn’t matter” (qualsiasi, non importa, faccia lei). Caddi nel baratro dell’incomprensione.
Senza volerlo avevo offeso la sua professionalità e violato il suo contratto che prevedeva domande standard che costituiscono una costante dell’organizzazione del lavoro in tutti gli Stati Uniti. La gentilezza degli addetti americani in qualsiasi servizio, che i profani stranieri apprezzano immediatamente – ma la cameriera nera aveva depennato la voce gentilezza – altro non è che un assoluto formalismo. Ha i suoi vantaggi perché crea un ambiente sicuro nel quale sai cosa aspettarti e inoltre frappone una barriera tra cliente e addetto che si difendono così dalla possibile maleducazione e da una complicità emotiva che altererebbe il rapporto.
Poiché non siamo macchine, questo sistema non funziona sempre, ma ha molti lati positivi. Il problema nasce quando per qualche motivo c’è necessità di uscire dalle domande e dalle risposte standard: a questo punto l’addetto e il cliente non sanno più come comportarsi. Questo avvenne con la cameriera quando le chiesi di scegliere pure il tipo di pane per il mio bramato panino. Il suo compito non era scegliere, ma servire e non intendeva fare altro.
La grossa donna nera, sempre più evidentemente scocciata, non voleva nemmeno sforzarsi di scegliere al posto mio e prima ancora che io potessi chiedere “what kind of bread do you serve?”, mi elencò una decina di opportunità. Il primo e forse l’unico che davvero compresi fu Jewish rye e ripetei sperando di avere finalmente passato l’esame. Dietro di me qualcuno dava segni di insofferenza e il mio imbarazzo cresceva. Abbozzai un sorriso alla donna nera, come dire ce l’abbiamo fatta. Mi illudevo: lei senza mutare l’espressione infastidita, continuò con l’interrogatorio: “wha’ ye wanna on it?” (cosa vuoi nel panino?)
Nemmeno in questo caso compresi la domanda perché a mio parere avevamo già deciso tutto il decidibile. Invece c’era ancora da stabilire se aggiungere mustard, ketchup, mayo (cioè maionese, ma figuratevi se l’avevo capito), Pickapeppa (!), tomatoes, chili, cabbage e una lista interminabile che mi condusse quasi alle lacrime mentre la fila cresceva e io mi sentivo fuori posto. Ordinai quel che capitava e capivo.
Alla fine, il panino era pronto senza che io avessi davvero scelto quel che desideravo. Sembrava pronto! Perché arrivò l’ultima domanda: “wanna a pickle?”, “Yes, thanks, basta che mi lasci in pace!” dissi terminando la frase in italiano. E non era finita, perché mancava ancora la complicata parte del modo e del dove avrei ritirato il panino una volta pronto!
Tornato al mio ufficio per mangiare quel sofferto panino, i miei colleghi mi presero in giro per gli strani accoppiamenti tra gli ingredienti che avevo scelto – “scelto” si fa per dire!
Una decina d’anni dopo, la scena del panino si replicò in una cafeteria di Boulder in Colorado, ma questa volta io seguivo nella fila ed ero diventato esperto nell’ordinare panini. Una coppia di norvegesi con bambino si trovava nella mia stessa situazione nell’ordinare il loro primo panino americano. Memore delle mie difficoltà, li aiutai nel comprendere il sistema.
La morale. Ci sono due modi di atteggiarsi quando si è superata una difficoltà in cui oggi si trovano altri a te prossimi. L’una è di simpatizzare e aiutare a risolvere il problema. L’altra è invece di irritarsi e mettere in ulteriore difficoltà chi affronta gli stessi inconvenienti che tu hai patito in passato.
Entrambi i comportamenti ti danno soddisfazione e ti fanno sentire superiore e vincente. Ma il primo è generoso, il secondo è vendicativo. E il panino è solo una metafora perché la stessa cosa avviene quando cambi Paese, quando non hai piena dimestichezza con la lingua, quando sei nuovo in un ambiente o in un posto di lavoro, quando ti arrabbi con la scuola-guida perché procede lentamente.
Chi ha del malanimo si vendica per i torti o il bullismo subiti. Le persone nobili e generose dimostrano quella compassione che non hanno ricevuto quando ne avevano bisogno.