La solitudine urbana

Introduzione

La città è un grande sistema di comunicazione; a sua volta un sistema di comunicazione è una città. Da questa considerazione partiamo per sviluppare una riflessione sulla solitudine umana in città collegando gli aspetti sociali con quelli territoriali. Questo saggio è contenuto nel volume #112 dell’Arco di Giano, periodico di Medical Humanities da me curato assieme a Carla Collicelli e contenente numerosi qualificati saggi. Qui ripropongo il mio saggio introduttivo.

La città materiale e immateriale

Per definizione, nel definire una città non si possono scindere gli aspetti materiali da quelli sociali: gli uni influiscono sugli altri e viceversa. Oggi, la città, intesa come sistema di comunicazione, opera, ancor più che nel passato, nel mondo virtuale. Tutti adottiamo uno stile di vita urbano, sia nelle grandissime metropoli sia se abbiamo scelto come residenza una casa isolata di campagna o in un piccolo borgo. Accediamo alle stesse informazioni, come numero e come qualità. Anzi, la metropoli contemporanea, con l’organizzazione della vita quotidiana che comporta, produce un sistema di relazioni e informazioni inferiore a quello ancora possibile nei centri minori dove è più agevole il formarsi di comunità di vicinato variegate al loro interno.

La densità (prossimità) di popolazione unita alla facilità di comunicazione, oltre una certa soglia, riduce la quantità di potenziali relazioni. Essendo troppo elevato il numero di incontri possibili, essi diventano formali e irrilevanti nel creare relazioni poiché è più probabile incontrare persone le cui caratteristiche, gusti e preferenze coincidono con le nostre. Di conseguenza, l’alta densità di popolazione favorisce l’isolamento soprattutto quando è associato a un modo di vita che tutela la privacy e così facendo riduce ancor più le potenziali relazioni. L’isolamento risulta meno marcato nei piccoli centri rispetto alle città e ancor più alle metropoli.

Nella metropoli, i rapporti si intrattengono prevalentemente tra persone appartenenti alla stessa categoria o gruppo (sociale, professionale, hobby ecc.) con cui si ha occasione di interagire per la tendenza a relazionarsi con persone simili. Altrettanto succede nella rete virtuale grazie alla possibilità di selezionare i contatti. Di conseguenza, oltre una certa dimensione e densità di popolazione – reale e virtuale – viene a mancare la diversità che costituiva la caratteristica propria della città. I rapporti quotidiani tra individui sono esclusivamente formali e le ‘tribù’ umane – che secondo gli antropologi culturali raggruppano circa 80/100 persone – sono costituite da persone simili facilmente reperibili in una grande metropoli. In un contesto minore, per raggiungere il numero di 80/100 persone è necessario inglobare persone con diversi stili di vita, professioni, redditi ecc. Nei villaggi e paesi delle economie rurali di sussistenza, quasi tutta la popolazione era costituita da agricoltori, diretti da pochissimi fattori, aristocratici e clero con cui avevano interazioni in massima parte formali. Da questa uniformità derivava la povertà culturale dei piccoli centri e delle campagne dove, tuttavia, si praticava una significativa solidarietà comunitaria. Oggi, nemmeno il consumo della popolazione è collegato al luogo di residenza. Tuttavia, l’organizzazione materiale dello spazio può incidere significativamente sul modo di vita, sulla creazione e sulle relazioni personali.

Il mondo rurale era studiato dagli antropologi culturali mentre quello urbano era analizzato prevalentemente dai sociologi. La sociologia, come disciplina, nasce per lo studio dei problemi urbani.

Il sistema di comunicazione e la metropoli

La città è un sistema di comunicazione nel senso che si fonda sulla divisione del lavoro e quindi sulla compresenza di persone diverse tra loro in quanto specializzate in diverse mansioni. Perché il sistema funzioni, è necessario essere informati sull’offerta di beni e servizi.

Il procedere della divisione del lavoro e della specializzazione comporta anche l’introduzione di diverse classi sociali, di stranieri e la compresenza di modi di vita variegati alla superficie, ma sostanzialmente unificati dall’organizzazione economica, materiale e delle relazioni della città. La differenza rende possibile e proficua la vita urbana favorendo la possibilità di produrre numerosi beni e servizi e scambiarli a costi contenuti rendendoli inoltre accessibili a tutti. La differenza e la specializzazione costituiscono la ragion d’essere e la caratteristica essenziale della città. 

Ma, se le differenze a fondamento della comunicazione urbana, per presunte esigenze organizzative, vengono tenute separate o complicate da un sistema burocratico, la vitalità decade. La città viene meno alla sua funzione di struttura organizzativa della comunicazione di tipo quasi naturale, insita nella personalità umana. Questo rischio è direttamente proporzionale al crescere delle dimensioni organizzative.

La città e la solitudine 

Le città contemporanee sono sempre più grandi e accolgono ormai tutta la popolazione del pianeta con irrilevanti eccezioni. Da ormai più di un secolo i sociologi hanno sollevato il problema dell’isolamento e della solitudine degli individui nella grande città. L’organizzazione del lavoro, gli stili di vita e il disegno degli spazi urbani trasformano il cittadino da ‘persona’ a ‘individuo’. La persona, per definizione, è intesa come partecipante attivo a un sistema di relazioni complesse, mutevoli e autonome. Per certi versi la persona è condizionata dalle regole della comunità di appartenenza e da sistemi di valori e responsabilità che ne limitano la totale libertà e la rendono soggetta a regole supplementari a quelle stabilite dagli ordinamenti statali. Ma la persona, intesa quale membro di comunità, gode di altri vantaggi e diverse forme di libertà che oggi andrebbero meglio indagate e valorizzate. 

Il progresso degli ultimi secoli è andato nella direzione della progressiva liberazione della persona dai condizionamenti comunitari, di classe sociale e famigliari rendendola soggetta soltanto alle norme positive e formali. S’è affermato il principio dell’unicità (o della prevalenza assoluta) dell’ordinamento giuridico statale e si è posta in discussione la legittimità della pluralità degli ordinamenti giuridici a livello sub-nazionale e, per quel che ci riguarda, delle micro-organizzazioni sociali. Se questo può considerarsi un progresso rispetto a comunità chiuse e irrispettose dell’autonomia individuale, l’essersi spinti troppo avanti in questa direzione ha creato problemi nuovi che oggi coinvolgono larghe fasce di una popolazione uniforme.

La città moderna, superata una certa soglia dimensionale, si è involuta in un sistema burocratico che è la negazione della comunicazione come fenomeno naturale caratteristico della specie umana. Se i cittadini trovano difficile comunicare e interagire tra loro, il luogo di residenza si trasforma da città comunicante a luogo in cui ciascuno vive isolato.

L’appartamento

Un elemento caratteristico dell’architettura e della residenza urbana è l’‘appartamento’ dove vive oggi la massima parte della popolazione nelle città. Una forma alternativa all’appartamento nel grande fabbricato sarebbe la casa isolata o a schiera, ma che di fatto non cambia il modo di abitare. Nell’ultimo secolo sono invece pressoché scomparse quelle forme costruttive e residenziali di comunità, che prima costituivano la normalità quali le corti e i palazzi nei quali risiedevano, sia pure in zone diverse, diverse categorie sociali e più famiglie. Inoltre, gran parte della vita di ciascuno si svolge al chiuso dell’abitazione.

La parola stessa che usiamo – ‘appartamento’ – significa separazione e mancanza di comunicazione. Il termine era nato riferendosi a una sola camera di cui era sinonimo. In seguito, l’appartamento è diventato pressocché l’unico modello di abitazione disponibile e l’unica domanda rivelata ed espressa da parte della popolazione.

Nel suo complesso tutta la città contemporanea si basa sulla netta divisione tra spazi pubblici e privati tra i quali manca qualsiasi zona di transizione. Al di là della porta di casa si vive una condizione completamente privata. Usciti da quella soglia blindata, entro la quale ci si isola e quasi ci si barrica, il cittadino si trova immediatamente in uno spazio pubblico dal quale si sente avulso. E altrettanto estranei sono gli individui che lo frequentano che vede, ma con i quali stenta a interagire. Non a caso ci si aspetta che tali spazi siano controllati in modo burocratico, da regole spersonalizzate (semafori, orologi, segnali, telecamere, barriere) e infine dalle polizie. Non esiste alcuna zona di transizione tra pubblico e privato.

L’architettura degli insediamenti urbani nell’ultimo mezzo secolo ha tentato di intervenire su questa condizione sociale senza successo, anzi con clamorosi fallimenti. Il design postmoderno non è stato applicato ai soli edifici, ai quali conferisce un elemento estetico più o meno accettabile, gradito e riuscito. Il postmodernismo architettonico – e altre scuole di pensiero ispiratrici della progettazione urbana e edilizia – è stato applicato anche al disegno di interi quartieri. La reazione postmodernista è insita in un modo di pensare e percepire spazi e società. Essa si sintetizza nel desiderio di cambiare la struttura sociale, giudicata criticamente, ma alla critica non corrisponde un reale progetto riformatore per cui tutto si ferma alla superficie. Pur conservando l’unità di base dell’appartamento o della casa singola o di quella a schiera, il postmoderno ha introdotto spazi comuni, giardini, corti che ‘citavano’ (termine distintivo del postmoderno) modelli di abitazione e quartiere del passato.

Ma si trattava per l’appunto di ‘citazioni’ e non avevano alcuna corrispondenza con la società reale cioè con il sistema di relazioni degli individui che vi risiedevano. Di conseguenza questi spazi nel migliore dei casi rimangono inutilizzati e nel peggiore degradano a causa della discrepanza tra le finalità del disegno e le funzioni effettivamente svolte. 

Se passiamo dall’architettura e dal disegno dei complessi edilizi all’urbanistica, il problema delle relazioni tra individui si fa ancora più critico. Il fallimento dell’architettura nel creare aree di vita comunitaria, nonostante l’offerta di spazi in linea di principio adatti, è collegato alla forma della città nel suo insieme. La città contemporanea non è concepita come uno spazio in cui risiedere, ma come un’area in cui muoversi il più facilmente possibile per accedere a servizi, luoghi di lavoro, beni l’offerta dei quali è sempre più concentrata e richiede dimensioni che sono andate costantemente crescendo nel tempo.

Per questo motivo, i piani urbani da oltre un secolo sono stati subordinati all’esigenza di rendere più agevoli gli spostamenti e la mobilità quotidiana di milioni di residenti ha costituito uno dei fattori principali, forse il principale. La città, persino le metropoli, non sono più concepite come la somma quartieri, parrocchie, rioni, persino ghetti ecc. ma come un’unica area indifferenziata nella quale si possano estendere all’infinito tutte le economie di scala possibili grazie alla mobilità. Le strade non sono realizzate per raggiungere luoghi, ma per attraversarli: questo vale correttamente per tangenziali, autostrade urbane, raccordi appositamente realizzati per gli spostamenti su larga scala. Ma la stessa logica è applicata alle strade locali, ai quartieri che sono trasformati in arterie di scorrimento o in scorciatoie oberate da un anomalo e non previsto traffico di attraversamento e occupate da auto parcheggiate altrettanto colpevolmente inaspettate. Questa percezione della città e dell’architettura degli edifici, la domanda di residenza in ‘appartamento’ e il desiderio malamente espresso di isolamento costituiscono tuttora la domanda dominante nella società. Le risposte amministrative e politiche procedono di conseguenza nel soddisfare queste che rimangono le uniche esigenze conosciute o, per lo meno quelle su cui si basano le scelte pubbliche. In effetti, si sconta una pericolosa inerzia nel fondare le scelte sulle preferenze ‘rivelate’ piuttosto che fare emergere quelle ‘espresse’ – anche a seguito di un’operazione maieutica – che potrebbero portare a diverse soluzioni.

La città, quindi, rimane uno strumento di comunicazione, ma lo si sposta alla più elevata scala metropolitana che richiede grandi spostamenti di massa e su distanze sempre più lunghe. Ostacola le relazioni di vicinato, ancora possibili online e per chi si può muovere, ma problematiche al crescere dell’età e della disabilità. 

Anche per altri gruppi di persone si afferma una situazione in cui predomina l’individualismo e la difficoltà di comunicazione personale.  La città costruita contemporanea, anziché favorire la comunicazione, la ostacola, almeno alla piccola scala. Ed è a questa scala che si muovono prevalentemente proprio gli anziani con problemi di deambulazione e di interazione comunitaria. Oltre agli anziani incorrono in questo problema anche coloro i quali per qualche motivo vivono una condizione di emarginazione dovuta sia a situazioni oggettive – disoccupazione, mancanza di famiglia, amicizie, hobby – sia soggettive, dovute alla difficoltà di integrarsi in comunità, cosa oggi più ardua di un tempo. 

La scomparsa di comunità di vicinato, delle parrocchie, dei negozi di prossimità, di un associazionismo diffuso e in persona (sostituito fittiziamente da quello online) accentua il rischio di solitudine e la associa alla contemporanea forma della città. Se penalizza in particolare gli anziani non risparmia nemmeno i giovani e altre categorie di individui.

Talora, casualmente e sempre più raramente, si formano piazze e luoghi di ritrovo in qualche periferia che riproducono la vita di relazione e consentono la formazione di luoghi di incontro, ma dalla semplice socializzazione – che pure va considerata una benedizione – non si passa alla più essenziale solidarietà e mutua assistenza a causa della mancanza di uno spirito di comunità e appartenenza

Da persona ad ‘atomo’ 

Questa forma urbana costituisce dunque l’antitesi di quanto necessitano le persone anziane e in genere coloro che soffrono di solitudine. Se la residenza in ‘appartamento’, come dice la parola stessa, è sinonimo di isolamento, a essa si aggiunge un altro concetto particolarmente negativo per le persone sole: l’apprezzamento acritico della tutela della ‘privacy’ o riservatezza. ‘Privacy’ deriva dal verbo ‘privare’, cioè togliere qualcosa: si rivendica – giustamente e opportunamente – il diritto a ‘farsi i fatti propri’, ma non si mette a sufficienza in risalto che ci si ‘priva’ della possibilità che altri ci conoscano, sappiano della nostra esistenza, delle nostre esigenze e siano pronti quindi a darci una mano.

Se a introdursi nel nostro privato sono grandi reti informatiche dirette da governi e grandi aziende, il timore di un controllo degli individui da parte di pochi poteri è immanente e grave. Ma questo giustificato timore induce a una riservatezza eccessiva se lo si trasferisce dalla grande scala al livello locale e cancella l’esistenza stessa della piccola scala, del quartiere, della vita urbana. La persona – con tutte le sue particolarità – non è più conosciuta da nessuno se non nei suoi aspetti formali. Infine, nemmeno in quelli formali, poiché la persona scompare del tutto alla vista degli altri. 

L’abitante della città contemporanea, da persona si trasforma in individuo, cioè un ‘atomo’ uguale a tutti gli altri il cui unico ruolo è contribuire in modo indistinto alla formazione della ‘massa’. Non è un caso che la parola ‘individuo’ non sia altro che la versione latina di ‘atomo’.

Cosa fare?

È possibile riorganizzare la città per renderla a misura di anziano e di vecchio? Siamo di fronte a un’esigenza particolarmente sentita in vista di un aumento rilevante, non solo della popolazione di oltre settantacinque anni, ma anche degli ultranovantenni e dei centenari. La buona notizia è che la qualità della vita e una migliore educazione anche alimentare e igienico-preventiva, consente anche ai più anziani di arrivare in buone condizioni a età in cui fino a pochi anni fa si erano perse gran parte delle capacità di lavoro, intellettive e di vita sociale. Purtroppo, non succede per tutti ed è doveroso offrire il tradizionale aiuto a chi diventa presto non-autosufficiente. Ma per gran parte degli altri sono necessarie politiche adatte agli anziani e una rivalutazione delle capacità medie delle persone in relazione a età un tempo considerate avanzate e residuali.

Una sfida per migliorare la qualità di vita degli anziani e dei vecchi consisterà nel trovare un ruolo attivo per loro nella società. La soluzione del problema degli anziani e dei vecchi per mezzo di un’assistenza passiva o attraverso la progettazione e la costruzione di case di riposo o altre forme di ghettizzazione costituisce la parte secondaria di una politica che contrasti la loro solitudine oltre al bisogno di assistenza. In questo contributo affrontiamo la questione dal punto di vista dell’organizzazione urbana che include anche altre componenti sociali non correlate all’età.

Vari contributi raccolti in questo numero dell’Arco di Giano offrono soluzioni e proposte per affrontare il tema in questione. Il mutamento sociale è sempre problematico e non basta un provvedimento ad avere ragione di problemi fossilizzati in una struttura complessa. Ancor meno si può sperare di cambiare tale struttura sociale con un tocco di bacchetta magica o con qualche riga scritta su un libro. Essa non ha radici solo nelle costruzioni e nella società, ma affonda anche negli schemi di pensiero e nel comportamento di ciascuno. Proprio per questo motivo, accanto ai metodi propri della sociologia, che peraltro s’è affermata come disciplina proprio a partire dagli studi urbani, sono necessarie impostazioni elaborate dall’antropologia culturale, dalla psicologia, dalla prossemica e in generale dallo studio dei rapporti tra persona e territorio. Il quasi monopolio dell’impostazione sociologica e statistica nell’affrontare i problemi della convivenza urbana costituisce un limite in quanto impedisce la riformulazione di numerosi problemi emersi proprio a causa di un eccesso di urbanizzazione sociale.

Fatta questa premessa, per il reinserimento degli anziani nella vita attiva non si può che operare utilizzando gli strumenti della sociologia e quindi la riorganizzazione del lavoro, dell’organizzazione burocratica e delle funzioni urbane incluse quelle che richiedono spostamenti e i sistemi della residenza. Questa impostazione ripete il modello urbano già applicato per oltre un secolo e che ha consentito enormi progressi nella qualità di vita e nella salute pubblica e individuale. Con la crescita si sono tuttavia evidenziati nuovi problemi che non possono essere affrontati con gli stessi strumenti che li hanno provocati.

Anzitutto, il rapporto tra età e lavoro – ancora e quasi esclusivamente basato sul principio del ritiro del lavoratore attorno ai 65 anni dopo un periodo di circa 40 anni di attività e di circa 20 anni di formazione – va rivisto alla luce delle nuove esigenze, stili di vita e configurazione demografica della popolazione. L’idea che il lavoro costituisca una necessità e una pena da cui l’anziano si ‘libera’ dopo una vita di sacrificio propone una visione schiavistica e poco conciliabile con una società ispirata dall’edonismo.

Anche la famiglia e i legami di parentela sono profondamente mutati, sia in relazione al tradizionale matrimonio monogamico e tendenzialmente indissolubile, sia per la convivenza ordinaria di quattro generazioni. A questi aspetti sostanziali – lavoro, sussistenza e legami familiari – si possono aggiungere preferenze e stili di vita meno decisivi, ma che influiscono in modo rilevante sulle relazioni umane. Si parla di hobby, sport, interessi culturali, relazione con l’ambiente e la natura, agricoltura urbana, manutenzioni ecc. 

Il superamento della solitudine urbana, degli anziani in particolare, passa anche attraverso una revisione dei modi di abbandono del lavoro o meglio delle attività. Al proposito va compiuta ed enfatizzata la distinzione tra lavoro – dipendente o autonomo ma prevalentemente rivolto alla mera sussistenza – opere e attività che presumono una serie di relazioni umane e non solo sociali. 

Questa valorizzazione si attua attraverso le relazioni famigliari e, per esempio, il rapporto con i bambini e le scuole per l’infanzia la cui offerta è ancora ispirata e basata sull’idea di una famiglia mononucleare dove coniugi giovani sono impegnati in un lavoro a orario stabile. In questa situazione si trova oggi una minoranza della popolazione e la rigidità dell’organizzazione scolastica – inclusa la scuola dell’infanzia – diventa un letto di Procuste che costringe ad agire in un modo non rispondente alle reali esigenze e soprattutto inibisce l’opportunità di introdurre soluzione alternative adatte alle reali condizioni e domande (in)espresse. L’attività e l’operosità delle persone di età avanzata o non partecipanti al lavoro tradizionale, possono essere studiate in modo tale da essere di supporto a comunità di vicinato. 

I legami familiari e la conseguente solidarietà oggi sono certamente meno solidi che nel passato anche recente. Nondimeno, si creano molti più rapporti e più rapidamente per quanto essi siano più labili e forse meno affidabili perché non fondati su un costume e su un’etica che non è ancora né condivisa né assimilata. Proprio perché entrano nella sfera personale più che in quella sociale, la sociologia urbana non è adeguata ad affrontarli mentre studi di carattere antropologico culturale e psicosociale consentirebbero analisi più adeguate a comprendere la situazione corrente e a intervenire su di essa. 

Conclusione

Questa operazione è possibile se la si pensa nel lungo periodo e impossibile se si pensa di poterla programmare linearmente conoscendo con precisione l’obiettivo. Ritorna possibile nel momento in cui si avvia un discorso che sia in grado di costruire un diverso modo di vedere criticamente numerose strutture sociali, comunitarie e materiali.

Tenendo conto della necessità delle relazioni umane che superino l’‘appartamento’ (l’appartarsi oltre che la residenza) e la privacy, anche la progettazione residenziale è invitata a adottare nuove forme in grado rispondere alle esigenze di questa sezione crescente della popolazione sola e anziana o soltanto sola. Si tenga conto al proposito del superamento della famiglia mononucleare che ha ispirato per oltre un secolo la progettazione delle abitazioni. Allo stesso modo, la tecnologia delle telecomunicazioni consente di rivedere profondamente, consentendo una drastica riduzione, anche a fini ecologici, della mobilità.

Cambiare il modo di vita e di concepire l’abitazione e le relazioni che si creano attorno a essa (o non si creano come succede oggi in massima parte) non è un’operazione facile né che può essere programmata a tavolino. Vale la pena che si cominci a pensare in modo diverso per trovarsi pronti a una trasformazione che avverrà, anche in tempi relativamente brevi, sulla spinta di un profondo cambiamento negli stili di vita e nella struttura demografica e sociale della società. 

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