Celebrati i funerali di Niccolò Ghedini, dopo averne pianto la morte prematura, non ci sottraiamo al compito di esprimere un giudizio su una personalità che ha svolto un ruolo importante nella politica della Repubblica sia pure rifuggendo l’eccessiva esposizione mediatica. La riflessione serve per comprendere la crisi della Repubblica e della democrazia attraverso il diffondersi di un modo di pensare e conseguenti comportamenti che non sono a sufficienza rilevati (e rivelati).
Non ho mai conosciuto Ghedini personalmente salvo averci scambiato in un paio di occasioni brevi conversazioni sufficienti ad apprezzarne la gentilezza formale e a rendermi conto di quanto distinguesse nettamente la sfera personale da quella professionale. Scrivo quindi ispirandomi a quanto appreso dai media in questi ultimi vent’anni.Ghedini era e agiva come avvocato difensore: la sua etica era la difesa dell’assistito con tutti i mezzi possibili garantiti dal diritto.
Non gli interessava se fosse innocente o colpevole, ma mirava a conseguire l’obiettivo dell’assoluzione, della prescrizione o della pena minore possibile. Era e si comportava come un tecnico del diritto. Entro certi limiti, un comportamento legittimo. Nel caso della difesa di Berlusconi, aggiungeva, senza schermirsene, che era legato a lui da un rapporto di amicizia personale oltre che professionale. Sottolineava che la lealtà verso l’amico precedeva ogni altra considerazione. Un atteggiamento comune a molti altri che fanno o hanno fatto parte della cerchia del Cavaliere. Anche in questo caso (sia pure con maggiori forzature e verginale innocenza) si potrebbe pensare che l’amicizia costituisca un valore superiore a tutto. Si potrebbe aggiungere altresì che la “società non esiste” come affermavano alcuni sostenitori rozzi e recenti del liberismo deprivato di qualsiasi componente etica. In realtà, la società serve ai più poveri e Ghedini non era di certo indigente sia grazie ai cospicui redditi che l’amico di Arcore gli garantiva (oltre all’indennità parlamentare), sia per la disponibilità atavica di patrimoni di una famiglia aristocratica.
Ma Ghedini era un borghese sotto tutti gli aspetti, essendo un professionista disinteressato a quella responsabilità pubblica che i nobili ritenevano di avere. Anteponeva all’etica pubblica l’amicizia con Berlusconi e l’appartenenza alla sua cerchia ristretta: la qualcosa, pur rimanendo discutibile, in qualche modo la si può giustificare all’interno di un liberismo illiberale, ma non privo di senso.Il problema nasce nel momento in cui Ghedini diventa – e rimane per vent’anni – un rappresentante del popolo in Parlamento.
È accettabile che un rappresentante del popolo anteponga le proprie amicizie (di alto livello, tra cui su tutti il Capo del Governo), la propria famiglia, l’esercizio (peraltro lautamente remunerato) della propria professione al dovere di rappresentare prima di tutto gli elettori? Il clamoroso perdurante assenteismo dalle aule parlamentari, di cui è stato più volte accusato, costituisce un aspetto solo secondario rispetto al suo mettere al primo posto il privato rispetto al pubblico.
Ghedini non si sentiva di rappresentare il popolo e credo che nessuno glielo abbia mai sentito dire, né glielo abbia chiesto. Ancor meno si considerava parte del popolo, ma parte di una specifica élite.Il problema che qui si solleva non è tanto la personalità di Ghedini, un uomo a cui si può riconoscere coerenza, ma la rinuncia a discutere politicamente sui rapporti tra la morale pubblica e privata, sul prevalere del ‘familismo amorale’ sull’etica civile. Una discussione che oggi si fa solo a suon di insulti urlati, di scandali occasionali, di un uso politico di una magistratura a sua volta allo sbando tanto quanto la politica, i suoi rappresentanti e i cittadini stessi. Ghedini, anche dopo morto, è stato subissato di attacchi e critiche spesso indegni che lasciano il tempo che trovano e non vanno al nocciolo del problema di chi e come si rappresenta il popolo.