I sondaggi del dopo-COVID, dall’essere uno strumento di conoscenza degli umori popolari, si sono trasformati in uno strumento per verificare se il popolo ha capito quel che gli è stato ordinato di credere.I sondaggi per comprendere il pensiero dei cittadini fino agli anni Novanta erano rari se non proprio del tutto assenti. I partiti rappresentavano programmi ben identificati e si rivolgevano agli elettorati che si riconoscevano in essi.
In seguito, con la crisi e la dissoluzione dei partiti che rappresentavano specifici interessi di classe o un sistematico modo di affrontare i problemi collettivi, si ricorse sempre più i sondaggi. In assenza di una linea politica e di un elettorato stabili, ai leader era necessario conoscere gli umori popolari per produrre un’estemporanea e superficiale offerta politica.
Oggi, i sondaggi sono entrati in una nuova fase anche a seguito dell’emergenza pandemica che ha consentito di elaborare e applicare sofisticati sistemi di comunicazione di massa. Non importa stabilire quanto necessari siano stati per fronteggiare un grande pericolo. Il problema è che, una volta elaborati e applicati estesamente, tornare indietro risulta molto difficile tanto quanto è arduo riconvertire un’economia di guerra in una di pace.
I sondaggi del dopo-COVID, dall’essere uno strumento di conoscenza degli umori popolari, si sono trasformati in uno strumento per verificare se il popolo ha capito quel che gli è stato ordinato di credere.
Questa mia supposizione nasce dalla superficiale (ma professionale) osservazione delle domande sollevate nei sondaggi diffusi dalla TV e dai giornali. Per provarla o smentirla sarebbero necessarie ricerche rigorose sul tipo di domande sollevate e sui commenti alle risposte. Però questa analisi critica non la si fa o non è altrettanto conosciuta.
Si continua invece ad attribuire fiducia a sondaggi che sono parte di operazioni complesse (forse necessarie in alcuni casi, quale la pandemia) di formazione dell’opinione pubblica.