Il dibattito sull’autonomia è una questione politica e culturale di primaria importanza. Quella che sarebbe dovuta diventare una profonda riforma dello Stato è stata di proposito ridotta a una banale riorganizzazione burocratica. Si sono raffreddati gli animi di chi al Nord chiedeva più responsabilità e si montava la paura in chi viveva al Sud di perdere quelle elemosine con cui sopravviveva senza mai svilupparsi. Anziché far seguire le leggi alle idee – ragionando ‘de iure condendo’ come spetta alla politica – i legislatori non si battono più per spezzare le catene di leggi esistenti, limitandosi a discutere ‘de iure condito’ come grigi funzionari di provincia.
La questione dell’autonomia e del federalismo va ricondotta con vigore e passione nell’ambito politico. Dal referendum del 2017 in poi invece, la questione dell’autonomia è stata ridotta a una mera operazione amministrativa facendo arenare il dibattito sulla possibilità di ‘portare a casa il possibile’. Chi aveva creduto nella possibilità di una riforma reale dello Stato, a seguito dei referendum e di simili istanze avanzate in altri paesi europei, non è più riuscito a riprendere l’iniziativa politica. È successa la stessa cosa anche in Catalogna, in Scozia e in tutta Europa dove è in atto un processo di centralizzazione e di instaurazione di un vero regime in cui la periferia non è proprio considerata. A questo processo centralista il governo non si oppone in alcun modo nonostante a parole professi talora un falso ‘sovranismo’. La sinistra sul tema delle autonomie e del federalismo nel migliore dei casi è assente, ma in genere è accesamente contraria e in questo ancor più sollecita dell’attuale maggioranza a boicottare l’autonomia.
Meloni da anni si riferisce all’Italia come a una Nazione e non come a una Repubblica o ancor meglio a un Paese. E lo fa con rigore e precisione proponendo un’idea centralista a cui nessuno si oppone. Anzi cerca di portare il discorso a livello culturale facendosi affiancare da Marcello Pera, ex presidente del Senato ed ex-insigne filosofo che oggi si lascia penosamente strumentalizzare.
Pochi o nessuno hanno mai fatto notare questo nuovo uso del linguaggio del Capo del governo. L’Italia è anche una Nazione, come va ripetendo da qualche anno Meloni senza contraddittorio da parte di nessuno. Ma lo diventa (eventualmente) solo dopo che si è definita e organizzata come Repubblica. Non si fonda su alcuna presunta etnia e persino cultura, ma solo sul modesto, eppure nobilissimo, lavoro.
Perché nessuno si oppone a questa narrazione che sta diventando predominante e senza contraddittorio? È evidente a tutti che in questa impostazione non c’è alcuno spazio per federalismo e autonomia. Meloni e Pera (absit iniuria nominibus) riprendono ottocentesche citazioni di spirito nazionale, di patria, di sangue e terra. Si guardano bene dal rievocare parole come razza e le edulcorano confondendole con i più prudenti termini di etnia e di cultura nazionale comunque intesi come dati una volta per sempre e cristallizzatisi nel passato. Noi vogliamo ricordare ancora che in Italia sono riconosciute e rispettate tutte le diversità.
La cruciale riflessione geo-politica su territorio, identità, appartenenza e istituzioni è stata dimenticata e la destra l’ha opportunamente risollevata di fronte a una situazione nuova. Un secolo dopo l’avvento del fascismo e a ottant’anni dalla sua caduta, non si può liquidare un tema fondante della nostra Repubblica (questa sì che possiamo chiamarla anche Patria) con un paio di insulti, indignazioni e sberleffi sulle radici fasciste dei nonni (politici) di Meloni. E anche il collegamento di Marcello Pera con il Risorgimento, dichiarato strumentalmente ‘conservatore’, è in realtà una novità nel panorama politico poiché non si può pensare comunque a un ritorno al pensiero dell’Ottocento riprendendo le strumentalizzazioni che Mussolini faceva di Mazzini.
Cosa dicono gli intellettuali autoproclamatisi progressisti e ora più conservatori dei sedicenti conservatori? Silenzio assoluto o riproposizione di concetti logori senza alcun tentativo di aggiornarli e men che meno di assumere quell’iniziativa culturale che aveva caratterizzato i progressisti del passato.
Se non si riuscirà a riportare nell’ambito politico e culturale il discorso su federalismo e autonomia, ci sarà spazio solo per cambiamenti di infimo dettaglio.